Teatro

Rigoletto a Treviso

Rigoletto a Treviso

Possediamo una bella immagine di Giuseppe Verdi, scattata proprio al tempo del “Rigoletto”, in cui lo troviamo seduto su una imponente poltrona di stile ‘fiorentino’. Occhio fiero, barba e capelli ben scur con un ciuffo sulla fronte che accentua il carattere volitivo; giacca elegante e piega dei calzoni ben delineata, scarpe morbide e lucidate. Un vero ‘signore’  d’antan, autorevole  e fiero nel portamento,  diverso ormai dal giovane, rampante musicista che era stato sino a poco tempo prima. Un uomo, insomma, ora pienamente consapevole delle proprie possibilità e della propria statura artistica, e quindi poco disposto a concedere spazio alle altrui pressioni. E’ anche per questo che le tribolazioni incontrate dal libretto ricavato da“Le roi s’amuse” a causa delle obiezioni della censura veneziana – puntiglioso organo di controllo che l’amico Piave e il Brenna, segretario della Fenice, avevano incautamente sottovalutato – lo esasperano e lo fanno imbestialire. Il soggetto del grande Hugo è molto forte, certo, ma possiede tutta quella “tinta musicale”– per usare una sua felice locuzione – capace di sollecitarne l’inventiva,  caratteristica perfetta «per dare colore, rilievo ai personaggi scenici, ed evidenza luminosa allo sfondo su cui questi si muovono», come scrive Carlo Gatti. «Un gobbo che canta? Perché no!... Io trovo appunto bellissimo rappresentare questo personaggio esternamente deforme e ridicolo, ed internamente appassionato e pieno d’amore», perora con passione il musicista. I tentativi di mediazione da parte di tutte le parti interessate, con proposte e controproposte di tagli e modificazioni quasi non si contano; sino a quando nientemeno che lo stesso Governatore  austriaco, il conte Karl von Gorzowsky, non interviene d’autorità deplorando che gli autori «non abbiano saputo cogliere altro campo per far emergere i loro talenti che quello di una ributtante immoralità ed oscena trivialità, qual è l’argomento intitolato La maledizione», avvertendo infine tutti gli interessati alla questione «di astenersi da ogni ulteriore insistenza in proposito».  Le cose, come ben si sa, andarono per fortuna diversamente: “La maledizione” iniziale divenne infine il “Rigoletto” che tutti ben conosciamo, nel quale trovano accoglienza i suggerimenti del disponibile Direttore Generale dell’Ordine Pubblico, dall’evocativo nome di Carlo Martello. In pratica, Pieve e Verdi accettano di cambiare di nome e di qualità i protagonisti, e mutano i luoghi d’ambientazione, trasponendoli dalla fastosa corte di Francesco re di Francia alle nostrane sponde mantovane del Mincio. Non è il caso qui di ripercorrere tutte le defatiganti tappe di tali trasformazioni - che potranno essere rintracciate negli esaustivi studi di Julian Budden – ma resta il fatto che tanto lavoro di limatura ebbe nondimeno il merito di ottenere dalla penna del Piave uno dei suoi libretti migliori, pari nella sintesi verbale e drammatica a quello de “La traviata”.

Ma veniamo a questo “Rigoletto” del Teatro Comunale di Treviso, in realtà già apparso in scena a marzo 2012 al Comunale di Ferrara. Anche gli interpreti erano almeno in parte gli stessi visti allora nella città estense, e cioè il protagonista Giuseppe Altomare e la Gilda di Scilla Cristiano; eguale pure la direzione orchestrale, affidata al giovane Francesco Omassini.
Spettacolo con tutta evidenza congegnato decisamente nel solco della tradizione, poiché la regia di Patrizia Di Paolo procede con una certa cautela e non si discosta dal libretto, mettendo in piedi un “Rigoletto” che nell’impianto generale – si voglia o no  - molto deve a quello celeberrimo e stravisto di Pier Luigi Samaritani. Sullo sfondo architetture tradizionali, indosso agli interpreti ed al coro bei costumi d’epoca rinascimentale, e su tutto la sensazione di una piacevole fastosità generale. Piacevolmente vivace la scena d’avvio gradevole l’apertura del secondo atto, con il Duca a confronto con le plastiche (ma solo apparenti) nudità di tre femminee grazie; del tutto inutili le proiezioni, sul velario di tulle o sul fondale, di immagini pittoriche rubensiane che poco o nulla hanno in comune con la storia; inammissibile la lunga pausa per smontare il palazzo ducale, con fastidiosi rumori di martelli e quant’altro che giungevano in sala (e questo quando all’uopo avevano accortamente già provveduto Verdi e Piave, inserendo il tetro incontro ante sipario tra il buffone ed il sicario). Accettabile invece, e per certi versi anche interessante, l’immagine finale di Gilda che, invece di venir meno tra le braccia del padre affranto, si allontana nel buio già come spettro, lasciandogli null’altro che un doloroso ricordo di sé; unica invenzione originale e degna di memoria, in una regia di per sé funzionale ma eguale a tante altre viste nel tempo.

L’Orchestra Regionale Filarmonia Veneta era sotto la guida, come già detto, dal giovane direttore veneziano Francesco Omassini: direzione ordinaria e priva di tensione, la sua, che a volte mortifica il canto; visione generale di scarsa drammaticità, tempi troppo allentati (alla corte del Duca si folleggia sì, che diamine, ma un po’ annoiati e fiacchi), pochi i colori, poche le atmosfere evocate.

Quanto ai cantanti, abbiamo trovato una compagnia abbastanza diseguale, dato che sull’ondeggiante Duca di Mantova consegnato da Valter Borin è bene soprassedere; meglio assai andava con la Gilda di Scilla Cristiano, voce non grandissima – resta un po’ vuota in basso - ma pur sempre commovente negli effetti di chiaroscuro e nell’espressione; ma soprattutto grazie al solido e ben timbrato Rigoletto di Giuseppe Altomare, interprete sempre in grado di dare giusto peso e bel colore alla frase, conferendo massima espressività ad ogni parola tramite una immedesimazione completa nel personaggio, ed una consapevole ed accorta adesione al canto verdiano.  Potente dunque la grande scena del secondo atto, dipanata con bel gradiente di effetti; ma pure i dialoghi tra padre e figlia possedevano una loro verità drammatica e bella ricchezza d’accenti. Buon comprimariato nei ranghi di rinforzo, specie nel caso del torvo Sparafucile di Abramo Rosalen, notevole basso profondo,  e della fascinosa Maddalena di Silvia Regazzo; Eugenio Leggiadri-Gallani era Monterone, Dario Giorgelè Marullo, Gabriele Colombari Borsa, Daniela Giazzon Giovanna, Paolo Bergo e Lara Matteini il conte e la contessa di Ceprano.
Il Coro Lirico Amadeus, diretto da Roberto Badiali, ha assolto il suo compito con sufficiente professionalità; nella recita del 24 novembre il ruolo del Duca è passato nelle mani di Orfeo Zanetti.
Le scene di questo “Rigoletto” erano prodotte da Dimensione Lirica/Mutina Eventi, i costumi erano forniti dalla Sartoria Teatrale Arianna.